Sulla velocità dei processi forse, non tutti sanno che…
La ragionevole durata come principio costituzionale
È purtroppo noto che l’affrontare il processo, sia per colui che dà origine al procedimento sia per chi viene citato, comporta una serie di sacrifici, sofferenze ed emozioni che si accompagnano all’iter giudiziario; l’attesa prima di una udienza, le lunghe riserve giudiziali ed i frequenti rinvii. È indubbio che tale situazione non consente di vivere il processo con serenità, e spesso, oltre alle spese giudiziali bisogna avere a che fare con i maggiori costi in termini di turbamento.
Tali emozioni vengono vissute da entrambe le parti, ed è indubbio che l’essere giudicato in tempi ragionevoli, indipendentemente dall’esito della controversia, rappresenta un segno di civiltà giuridica e sociale.
Il diritto alla ragionevole durata del processo dovrebbe essere considerato come un diritto “naturale”, facente parte dei diritti inviolabili dell’individuo compresi nell’art.2 Cost. Nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali si attribuisce un diritto soggettivo direttamente azionabile davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo a chi abbia subito effetti pregiudizievoli da un processo eccessivamente lungo. La ragionevole durata del processo è anche un principio costituzionalmente sancito tra le garanzie del giusto processo dall’art. 111.
La legge Pinto e l’equa riparazione nel caso di non ragionevole durata
Il legislatore, a seguito delle pressioni del Consiglio d’Europa, ha riconosciuto attraverso la L. 24 marzo 2001, n. 89 il diritto ad un’equa riparazione nel caso in cui il cittadino che abbia intrapreso un processo ritenga che sia durato troppo. La Legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. Legge Pinto) sancisce l’espresso diritto a un’equa riparazione per il danno patrimoniale o non patrimoniale subito per effetto della violazione della Convenzione europea sopra citata, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole. La norma non stabilisce in astratto un preciso parametro temporale, ma rinvia la valutazione, caso per caso, al giudice in base ai seguenti criteri: complessità del caso, comportamento delle parti e del giudice del procedimento, comportamento di ogni altra autorità chiamata a concorrere o a contribuire alla sua definizione. In linea di massima si può affermare che i criteri elaborati dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo sono di tre anni per il primo grado e due per il secondo (cfr. Cass. 13 aprile 2006 n. 8717 Cass. 26 aprile 2005 n. 8585, anche per i processi previdenziali e assistenziali: Cass. 7 aprile 2004 n. 6856). Ahimè, tempi “leggermente” più brevi di quelli che si riscontrano nelle aule dei tribunali italiani.
Ambito di applicazione
Il principio della “giusta durata” e dell’equa riparazione del danno è applicabile sia al processo ordinario sia alla procedura fallimentare (in quest’ultimo caso la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28318 del 31 dicembre 2009, ha precisato che la ragionevole durata stimata in tre anni può valere solo nel caso di fallimento con un unico creditore, o comunque con un ceto creditorio limitato, e senza profili contenziosi autonomi).
Un’altra norma fondamentale è quella prevista dal comma 6 per il quale:
La Corte pronuncia, entro quattro mesi dal deposito del ricorso, decreto impugnabile per cassazione. Il decreto è immediatamente esecutivo.
Si è voluto così porre un lasso di tempo per la decisione, al fine di evitare che un procedimento instaurato a causa di un processo durato troppo a lungo possa a sua volta avere dei tempi eccessivi. Quindi è bene ricordare che, sia che si vinca sia che si perda una causa, si ha sempre il diritto ad essere giudicati in tempi ragionevoli, in mancanza dei quali è possibile ricorrere al proprio legale per ottenere il risarcimento dei danni subiti.